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Il mototurismo da coronavirus: progettiamo i grandi itinerari

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Anche se siamo costretti a casa dal coronavirus, con la moto in garage, non dobbiamo rinunciare alla nostra natura di mototuristi!

E siamo a casa. Non proprio sorridenti e rilassati, piuttosto prigionieri di un coronavirus con atteggiamenti da bullo. E anche prigionieri di una normativa d’urgenza. Una normativa che, come tutte quelle nate da un’emergenza, non può essere declinata secondo il buonsenso perché manca il tempo di valutarne i dettagli. Diciamolo chiaro: vorrei uscire in moto per fare qualche centinaio di km e spegnere il generatore d’ansia. Rilassarmi, staccando il pensiero dalle statistiche di morti e ricoveri causati dal coronavirus, da immagini di operatori del 118 che scendono dalle ambulanze come se stessero entrando nel reattore 4 di Chernobyl il giorno stesso del disastro. Vorrei farlo ma non posso, legalmente.

Riflettiamo: facendo il giro in moto, starei ben più lontano di un metro dal mio prossimo, mi fermerei solo a fare rifornimento oppure in un luogo deserto e silenzioso a guardare il mare. Non rischierei di prendere il coronavirus più che a casa. E non rischierei di regalarlo ad un altro essere umano, nel malaugurato caso che dovessi esserne portatore. Rischi aggiuntivi allo stare a casa: zero. Ma il mio stato psicologico sarebbe mille volte migliore, probabilmente il mio sistema immunitario sarebbe più forte contro il coronavirus per la dopamina, l’endorfina, la serotonina e tutto quello che dà benessere e che pare debba finire per forza in “-ina”. Per noi, anche se gli scienziati non l’hanno ancora isolata, sarà sicuramente la motociclina.

Uscire in moto darebbe benefici in termini psicologici senza aumentare i rischi di contagio da coronavirus.

In attesa che passi l’emergenza e non volendo violare la legge, ci sono un paio di strade da seguire. Strade in senso metaforico, ovviamente. La prima, di cui vorrei accennare oggi, è la pianificazione di un grande viaggio futuro. La programmazione è un piacere in sé, non per forza finalizzato alla messa in atto del progetto, ma che lasci la mente libera di volare in modo concreto. Non è un ossimoro. Qualcosa che a me ha sempre dato gioia, qualcosa che riuscivo a godermi meglio quando avevo più tempo libero e potevo dedicarmi a quell’attività di confine fra sogno e progettazione.

Ora siamo costretti dal coronavirus  ad avere più tempo libero. Possiamo dedicarci a quel momento magico in cui un pensiero passa dalla dimensione onirica (una volta nella vita mi piacerebbe andare al Circolo Polare a vedere la casa di Babbo Natale) a quella reale (la casa di Babbo Natale è a Rovaniemi, in Finlandia, neanche 5.000 km da qui…). Quel momento in cui ti vengono le idee pazze, poi ci rifletti e, con lo sguardo adatto, citi Gene Wilder in Frankenstein Junior e urli “SI….PUO’….FAREEEEEE!!!!”.

Un’idea folle è spesso una scintilla di genialità che la mente marchia negativamente perché troppo fuori dagli schemi abituali.

Abbiamo bisogno di fiducia. Di darne e di riceverne, in un momento che mette alla prova le nostre certezze e sradica le nostre abitudini. Progettare il prossimo viaggio significa credere che questa piaga del coronavirus perderà la sua centralità e ci restituirà la libertà. Mentre scrivo sta prendendo piede l’idea di mettere fuori lenzuoli su cui è disegnato un arcobaleno e campeggia la scritta “ANDRA’ TUTTO BENE”. Perfetto, in attesa che vada tutto bene, prendiamo la cartina stradale e iniziamo ad andare.

Dedichiamo tempo a decidere i percorsi. Vediamo se abbiamo la possibilità di attraversare la Germania sulle sue bellissime statali, invece che sulle autobahn. Ci interessano i vini? Vediamo se possiamo seguire la rotta del vino che porta in Borgogna o in Alsazia. Andiamo a cercare i vini dolci ungheresi. Ubriachiamoci di curve in Austria e poi, quando non dobbiamo più guidare, facciamo godere le papille con i vini dolci austriaci, magari botritizzati dal clima unico del lago di Neusiedl. E’ giusto un tema, ma non c’è solo vino, ovviamente. C’è un mondo che ci aspetta, facciamoci trovare pronti a goderne.

Per dare il buon esempio, ecco come un desiderio vago si è trasformato in un’esperienza che ricorderò per sempre.

Di seguito, in maniera assolutamente esecrabile (del resto sono un tipo poco raccomandabile), cito me stesso con un estratto dal libro “Le mie girano sempre”, che ho pubblicato nel 2017. Esso stesso (oltre alle cose che contiene), è uno dei tanti esempi, nella mia vita, in cui un’idea apparentemente folle diventa un seme che germoglia in fiori inaspettati e bellissimi. Iniziate a progettare, questa reclusione è una rampa di lancio per grandi progetti e tanta gioia. In questa parte racconto di un viaggio fatto nel 1995 con una BMW K 75 RT. Ho avuto due BMW nella mia vita, su un totale di oltre 65. Parafrasando George Best, direi che ho speso una fortuna in viaggi, vini e soprattutto motociclette. Gli altri soldi li ho sperperati.

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“Avevo voglia di grandi itinerari, di una meta che fosse un’icona. E quale destinazione poteva essere più simbolica e sfidante di Nordkapp?

Capo Nord, 71°10’21” di latitudine nord, unanimemente indicato (erroneamente, a voler essere pignoli) come il punto più settentrionale d’Europa. Sarei andato dove il continente, quello stesso che iniziava appena a sud di casa mia, finisce per gettarsi nel Mar Glaciale Artico. Poi, solo la banchisa polare, senza nemmeno il conforto dei pinguini. Non cercai compagnia, però chiesi ai miei amici se qualcuno voleva venire e stavolta fui sinceramente divertito dal verificarsi dei vari step di prammatica: accettazione con entusiasmo, esitazione, ritirata. Solitudine. Perfetto.

Stavolta sarei partito con un’attrezzatura che potesse dirsi tecnica. In occasione della laurea i miei amici mi avevano regalato una tuta in pelle Dainese, spettacolare. Abbinata alla BMW, in Germania mi avrebbe fatto mimetizzare con la fauna locale. Inoltre avevo la mia fida antipioggia della Rukka e, invece del borsone da tennis, le due borse rigide a tenuta stagna con cui la RT veniva fornita dalla Casa. Viaggiavo da ricco.

La comodità della moto mi permetteva di effettuare tappe lunghissime e di programmare le soste con criteri diversi da quello della spossatezza fisica, per cui riuscivo anche a godermi il tardo pomeriggio e la sera nei paesi scelti per dormire. La fedelissima guida TCI mi suggeriva quali erano i luoghi sulla mia rotta che presentavano attrattive turistiche, così sceglievo documentandomi un po’ sulla cucina locale e facendone esperienza a cena. Il lavoro mi permetteva di viaggiare con ben altra possibilità di spesa e procedevo spedito e sorridente verso la mia meta.

Il fatto che disponessi di un budget più rilassante non mi faceva sentire comunque autorizzato a buttare i soldi. Per questo, arrivato a Rovaniemi, avevo scelto di dormire presso l’ostello della gioventù. Sapevo che in Svezia gli ostelli erano curatissimi e puliti, amici mi avevano detto che quello di Huskvarna si era rivelato una specie di hotel a quattro stelle al prezzo di una pensione. Estendendo il concetto svedese a tutta la penisola scandinava, mi dissi che andava benissimo.

Arrivai a Rovaniemi sotto una pioggia battente, cercai l’ostello e lo trovai. La gentile impiegata mi fece ricoverare la moto al coperto, in una specie di magazzino in cui entrai facendo acrobazie che mi fanno rabbrividire al solo pensiero. Anche l’ostello mi fece rabbrividire: non aveva nulla in comune con quello svedese. I concetti erano invertiti: era una pensione che costava come un hotel.

Pazienza, non intendevo muovermi da lì e dormii su un materasso lercio, con tre bikers tedeschi per compagni di stanza. Avevano viaggiato tutto il giorno sotto la pioggia, quindi, senza dubbio, bevuto l’equivalente in birra dell’acqua che avevano preso. Fra gli stivali bagnati, i calzini ed il russare, non fu una notte idilliaca. La mattina mi sarei aspettato il sole, come nelle fiabe. Ma trovai praticamente la riedizione della sera precedente, più o meno con la stessa luce e certamente con la stessa pioggia. Poi ci si chiede com’è che in Finlandia ci sono migliaia di laghi. Quando piove in Sicilia, si formano delle pozzanghere niente male. Basta porre pioggia e conseguenze in scala, et voilà!

Dopo la colazione, mi misi in sella ed in cerca dell’uscita da Rovaniemi in direzione nord. Pioveva forte e le nuvole nere erano così basse che toglievano la luce, le auto procedevano tutte con i fari accesi, come imponeva il codice della strada locale. Seguii la segnaletica che indicava Sodankylä e Inari e finalmente fui in periferia, nella giusta direzione. Le auto si diradarono, la pioggia no. Avevo indossato la mia fida tuta Rukka e, per evitare il freddo, stavo rannicchiato dietro l’ampio parabrezza della RT, approfittando dello scarso traffico per guardarmi intorno. Tutto era declinato in varie tonalità di grigio ed appariva decisamente poco eccitante, quindi nessun legame con le 50 sfumature di grigio che sarebbero arrivate molti anni dopo.

Mi trovavo su un rettilineo di cui non vedevo la fine, all’inizio di una tappa che avrei desiderato più asciutta. Mentre procedevo a circa novanta all’ora, mi sembrò di vedere in distanza qualcuno che si sbracciava per attirare l’attenzione. La pioggia era forte e non ero sicuro ma, man mano che procedevo, guadagnai la certezza che si trattava effettivamente di una persona che agitava il braccio. La strada era ormai poco trafficata, mi trovavo qualche chilometro a nord di Rovaniemi. Pensai ad un motociclista in difficoltà e mi preparai a fermarmi, per vedere se avesse bisogno d’aiuto. Da queste parti la solidarietà fra gli utenti delle due ruote è ancora più forte che altrove, a causa del ridottissimo numero di persone sulle strade e, in particolare, di motociclisti.

Avevo un kit di riparazione pneumatici in dotazione alla moto, magari avrei potuto risolvere il problema del compagno di passione. Eppure, man mano che mi avvicinavo, vedevo che, sotto la pioggia di luglio (eh, ma ormai lo sapevo che non era un ossimoro!), il braccio che si muoveva non esprimeva nessuna urgenza, anzi compiva oscillazioni ampie e calme, poco compatibili con uno che cerca aiuto e che vuole fermare l’unica moto in vista. La pioggia sulla visiera m’impediva una visuale chiara, ma ormai ero vicino e finalmente fui sicuro che i movimenti erano proprio cenni di saluto.

Poi la mandibola non mi toccò la coscia solo perché fu trattenuta dal sottogola del casco, altrimenti la bocca mi si sarebbe aperta a dismisura. Perché effettivamente quello a bordo strada, incurante della pioggia battente, stava salutando, con un sorriso largo e giocondo, proprio me. Non c’era dubbio: non avevo macchine dietro, ero il solo in vista sulla strada, in quel momento. E quest’uomo mi salutava, fatto di per sé abbastanza straordinario, visto che non conoscevo nessuno a Rovaniemi. O meglio, io in effetti lo conoscevo, ma lui come minchia faceva a conoscere me?

Domanda lecita perché quello che mi salutava sorridente dal bordo della strada era…Babbo Natale! Sì, lo so, so tutto. So che Babbo Natale non esiste, che i doni li portano i genitori, che le renne non volano e le slitte nemmeno. Ditemi quello che volete, ora e qui. Ma io ero sulla E75 e lui era lì, niente da dire. All’evidenza dei miei occhi si presentava proprio Babbo Natale, completo di pancione, barba bianca e cappello. Lì, sul bordo della strada. E mi salutava allegro, come se mi aspettasse da un pezzo ed era anche ora che arrivassi, con questa pioggia.

Oh Oh Oh. Minchia. Pausa. Minchia sulla musica di Jingle Bells.

Non mi andai a schiantare in curva solo perché curve non ce n’erano.

Restai però paralizzato dalla sorpresa e mi ripresi solo chilometri – di rettilineo – dopo. Incredibile! Babbo Natale! In pieno luglio! Che salutava me! Ero felice come un bambino. Anzi, ero un bambino felice. Mi sembrava di avere finalmente la risposta da opporre a tutti gli adulti negazionisti che usurpavano il ruolo e dicevano di portare i regali la notte di Natale. Non esiste? Eh, se esiste! L’ho visto a casa sua, mentre era in ferie a godersi l’estate, cercando di prendersi la polmonite per salutare il siciliano che passava. Mentre passavo accanto a lui, con le vertigini per l’emozione, la testa che mi girava dentro il casco, non mi restò altro da fare che salutarlo, incredulo, agitando il braccio a mia volta.

Mi servirono diverse decine di chilometri e diversi litri di pioggia addosso, prima di mettere l’accaduto nella giusta prospettiva. Rovaniemi era proprio dove Babbo Natale aveva il quartier generale, un modesto cottage utilizzato come ufficio postale per gestire tutte le lettere che i bambini di tutto il mondo affidavano al servizio postale.

Anni dopo, la magia sarebbe stata inglobata in un discutibile ibrido fra un parco a tema ed un centro commerciale, che tuttora esiste e si chiama Santa Claus Village. Non a caso, proprio dove passa la linea ideale che segna Napapiiri, il Circolo Polare. Gli affari sono affari.”

 Vi auguro – e mi auguro – di avere pazienza, di sopportare questa reclusione da coronavirus e di non perdere mai la voglia di cercare nuovi orizzonti. Ovviamente in moto.

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