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Dainese… il mercante… quelli col cerino in mano e la competizione che (forse) fa meglio

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È un momento storico particolare per i produttori di accessori nostrani. Dainese è quella che sembra faticare un po’ di più tra politiche commerciali curiose e complicate vicissitudini societarie, Nolan perde smalto con i piloti mentre Alpinestars soffre in tribunale (ma vola col fatturato). Modi (e risultati) diversi di cercare la crescita, ma il motociclista è ancora al centro dei pensieri?

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Nell’estate 2019 le cronache finanziare nostrane vedevano tra le società protagoniste del walzer delle fusioni e acquisizioni anche Dainese, apparentemente molto vicina a passare dalle mani del fondo del Bahrain Investcorp ad un altro fondo di private equity, con il patron Livio Dainese al 20%. Tanti pretendenti, che però si sono sfilati dall’asta prima della pausa ferragostana, sicuramente preoccupati dalle pretese dei venditori e probabilmente poco convinti dall’importante crescita attesa dei ricavi e dalle linee guida del business plan della società. Da quel momento un preoccupante silenzio radio, con la percezione da parte degli addetti ai lavori che già nel 2020 i soci rimetteranno l’azienda sul mercato.

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L’airbag, su cui Dainese ha puntato per differenziare l’offerta

Nel mondo finanziario di questi anni, in cui la liquidità degli investitori è tanta e c’è una forte spinta alle operazioni straordinarie, è curioso che una società così visibile e con marchi premium come Dainese e AGV non abbia superato l’esame di operatori che, per loro natura, vanno a caccia di oggetti talvolta imperfetti, proprio per “sistemarli” e guadagnare al momento del disinvestimento.
Ma facciamo un passo indietro. Nel 2014 Lino Dainese vende l’80% della società che porta il suo nome a Investcorp, per una valutazione di circa 130 milioni di euro. A portare a casa l’operazione Federico Minoli (abituato a far crescere le società per i fondi di private equity, con esperienza nel mondo moto con Ducati prima e recentemente con Deus Ex Machina). La famiglia conta ormai poco nella stanza dei bottoni e Minoli chiama a gestire operativamente il business come amministratore delegato Cristiano Silei, già conosciuto in Ducati.

Federico Minoli, presidente di Dainese

Quali sono i pilastri per la crescita futura a trazione bahriana? Qui inizia la confusione, Dainese persegue la strada del “faccio tutto io”, con i negozi monomarca e l’e-commerce a sconto, mentre i negozi tradizionali sono sempre meno centrali. Sul prodotto si lavora molto, ad esempio con l’impegno (lodevole) sullo sviluppo dell’airbag; però gli sforzi vanno tutti sulla soluzione elettronica, più complessa, che viene comunicata poco e spinta ancor meno con gli interlocutori istituzionali, cioè nessuna attività di lobbying. Il risultato? Piace su Facebook, ma si vende poco. Anche la scelta di spingere i monomarca e l’e-commerce, strategia da brand del lusso più che da mondo moto (a meno che non ti chiami Honda o H-D), probabilmente aumenta i margini ma nel lungo termine rischia di avere un effetto perverso sui volumi.

Il vero problema è che gli investitori finanziari quando sono spietati hanno uno schema di azione molto semplice, che in qualche caso è simile a quello degli allevamenti di bovini. Prendi una società sostanzialmente buona, la fai crescere di dimensione il più possibile in 3-5 anni e poi lasci la patata bollente a un altro come te, che farà lo stesso. La catena va avanti finché qualcuno resta col cerino in mano: se è un fuoriclasse vende a un altro operatore del settore e si salva mentre se è più sfortunato si trova bloccato con una società che non riesce a piazzare (e da cui è obbligato a uscire alla svelta, gli investitori rivogliono i soldi indietro).

Proviamo a spiegarvelo con una specie di parabola: c’è un mercante che deve vendere a un altro mercante un quadro preso a un mercatino a 100 euro. È bravo, glielo piazza a 1.000. Il collega, furbo pure lui, fa un po’ di pubblicità e lo piazza a un altro, a 1.500. Questo ne trova un quarto a cui, dopo aver lucidato la cornice, lo vende a 2.000. A fine anno i mercanti si trovano al bar, sono tutti contenti di aver fatto soldi sulle spalle di un altro collega. L’unico che non ride è il quarto, che ha strapagato una crosta che vale 100 euro e ora non sa come liberarsene.
Chi vince sempre, almeno fino a quando il sistema sta in piedi, sono i manager che ad ogni passaggio di mano percepiscono lauti compensi collegati alle plusvalenze, cessione dopo cessione. Ma ora che per un po’ la macchina è inceppata, che si fa? Sicuramente all’omonimo del più noto collega giornalista non piacerà l’idea di dover attendere più del dovuto per prendersi la sua parte di premi (solitamente cospicui, si veda l’operazione Ducati – comprata a saldo da Castiglioni e rivenduta molto bene –). Per ora, a pagare lo scotto della situazione sono stati i responsabili marketing e commerciali che si sono succeduti nel tempo. Certo è che le tasche dei mercanti, se i quadri non si vendono, alla lunga finiscono per svuotarsi.

Leggermente diverso invece il gioco in cui è finita Nolan, che da qualche mese è entrata a far parte della 2 Ride Holding, un gruppo diversificato che detiene anche Shark, Segura, Bering, Cairn e Bagster. Una specie di mini corazzata dell’abbigliamento moto.

I brand del gruppo 2Ride

In questo caso la tattica dei fondi di private equity, compreso l’attuale azionista Eurazeo, si chiama buy-and-build. Ovvero comprare una prima società (in questo caso Trophy, la “mamma” di Shark) a cui ne hanno in seguito aggiunte altre di dimensioni simili o più piccole per poi raggiungere una massa critica significativa (94 milioni di euro di ricavi nel 2018) e, all’uscita, poter puntare a una valutazione più generosa. Nel frattempo, si fa efficienza (speriamo magari non spostando tutta la produzione dello stabilimento di Bergamo presso quello tailandese del gruppo). Ma se per ora non sembra che sia già l’ora per l’azionista di 2 Ride Holding di lasciare il cerino in mano a qualcun altro, c’è un altro tema a cui prestare attenzione, legato al marketing e alla reputazione. Complice anche un certo ricambio generazionale nel circus, i piloti delle competizioni ufficiali la snobbano: in MotoGP sono rimasti Petrucci e Rins a usare un casco Nolan, mentre per dare un po’ di spessore alla pattuglia SBK sul sito della società c’è ancora tra gli ambassador il buon Marco Melandri, che il casco l’ha già appeso al chiodo da un pezzo. Può sembrare una cosa da poco, ma il traino delle competizioni nelle vendite è una cosa seria a non essere sulle teste importanti dei campionati che contano può essere un segnale da non sottovalutare.

Ad avviso di chi scrive, per fortuna degli appassionati, c’è un’Italia dell’abbigliamento moto che per, per ora, non si rivolge ai fondi di investimento. Ne fa parte Alpinestars, un gruppo da oltre 200 milioni di fatturato interamente controllato da Gabriele Mazzarolo. Lontano dalle tentazioni della finanza, Mazzarolo si lancia a sua volta nella corsa all’airbag, rimediando pure un contenzioso con un tribunale tedesco (invocato da Dainese) per una presunta copia di brevetti, perseguendo tuttavia una strategia di crescita più tradizionale e vicina al modo di essere del motociclista. Prodotti che si trovano nei negozi di tutto il mondo, attenzione all’immagine anche grazie a collaborazioni come quella con Deus Ex Machina, nessuna politica di sconto selvaggio.

da sinistra Sante Mazzarolo, Kenny Roberts e Gabriele Mazzarolo

Insomma, l’anno appena iniziato potrebbe riservare sorprese e qualche scossone per alcuni dei produttori di abbigliamento moto nostrani, la vera domanda è quanto della fanta-finanza o delle scelte commerciali delle aziende ricadrà sulle teste – è il caso di dirlo – di noi motociclisti. Rimanete sintonizzati.

 

Matteo Bacchetti e Charlie Crocker

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